Dall'Immanenza alla Trascendenza

Restando con i piedi per terra, ma mirando aldilà…

 

 

 

Stefano Taccone: Nella tua recente mostra Abbà, perdono e inconsapevolezza - curata da Raffaella Barbato ed ospitata presso la galleria napoletana PrimoPiano – sembri evidenziare la ricchezza ma anche la circolarità – « tutto è connesso a tutto », sosteneva Lenin - del tuo retroterra non solo culturale – e tanto meno solo artistico-visivo -, ma anche politico e sociale. Nel tuo sangue scorgo i tenebrosi dipinti del Seicento campano, i loro fortissimi contrasti chiaroscurali che discendono dal pur breve passaggio del Caravaggio a Napoli, ma anche le stridenti giustapposizioni dei “concettuali politici” alla Martha Rosler o alla Hans Haacke. C’è la tradizione giudaico-cristiana d’impronta cattolica – tanto “ereditata”, quanto più tardi felicemente riscoperta con lo studio e con la passione, anche se non con la fede – e la tradizione del movimento operaio, che parte al più tardi dagli scritti di Engels e Marx ed arriva, attraverso molteplici contaminazioni, fino a gruppi musicali italiani d’ispirazione politica molto radicale come i 99 Posse e gli Assalti Frontali ed oltre…

 

Pier Paolo Patti: La mostra si articola in un percorso unico, benché scandito in tre fasi e in altrettanti sale: Immanenza, Incarnazione e Trascendenza. La prima sala è quella dell’Immanenza, ove lo spettatore è posto al centro tra la grande installazione di frames video che ritraggono croci – ho creato un cimitero, volendo – ed un video che trasmette una bambina dal volto angelico che si dondola sull’altalena in una sorta di moto perpetuo. Pertanto il visitatore si trova nel bel mezzo di un confronto tra la vita e la morte. È una sala in cui si prende coscienza del proprio essere, funzionale al porsi nell’ideale condizione di affrontare le successive. Un ulteriore elemento è quello dei secchi neri colmi d’acqua. Mi piaceva questo gioco visivo che si andava a creare: essendo l’acqua trasparente, in un secchio nero è come non avesse forma. Un pozzo senza fondo. Quindi un indefinito entro una forma definita. Ed è un po’ come cercare la grandezza della propria interiorità. Come sperimentare la misura dell’immenso che c’è dentro di noi, in un corpo che è quello fisico, nostro, di ognuno. Un invito a scavare un po’ dentro stesso. La croce è anche incontro: se ci fai caso è evidenziato il punto di intersezione tra i due assi perpendicolari. È un simbolo sia di inizio che di fine ed è anche un simbolo arcaico. Poi vi sono riferimenti alla narrazione evangelica, ed anche alla numerologia (11x9), perché undici sono gli apostoli che restano fedeli a Gesù fino alla crocifissione, escludendo Giuda dall’elenco degli apostoli e volendolo collocare tra gli spettatori della mostra, mentre nove sono le croci che compongono ogni fila, dunque tre volte la Trinità, ma anche tre volte le fasi della crocifissione: la salita al Calvario, il patire di Cristo sulla croce stessa ed infine il momento del passaggio dalla vita alla morte.

 

ST: Tralasci quindi, almeno per ora, la Resurrezione, non includendola nella vicenda della crocifissione.

PPP: La resurrezione è dentro le nostre azioni quotidiane, se lo vogliamo!

ST: Escludere Giuda dal novero degli apostoli per collocarlo idealmente tra gli spettatori ricorda un po’ le soluzioni iconografiche tipicamente adoperate dai pittori toscani del secondo Quattrocento per rappresentare l’Ultima cena prima del radicale rinnovamento compiuto da Lonardo da Vinci nel refettorio del convento domenicano di Santa Maria delle Grazie a Milano. Al di là della circostanza per cui quelli rappresentavano il Cristo nel momento della consacrazione del pane e del vino – mentre Leonardo lo rappresenta nel momento in cui ha appena profetizzato il futuro tradimento di uno dei dodici, che di conseguenza sono rappresentati in preda allo sconvolgimento più totale -, vi è anche la questione della posizione specificamente occupata proprio da Giuda all’interno della composizione, che precedentemente era collocato di fronte a Gesù dall’altra parte del tavolo, come a sottolineare il tradimento compiuto. Sulla sua spalla compariva un demonio (Gv, 13, 2; Lc, 22, 3), mentre la borsa con i trenta denari pende ben evidente dalla sua cintura. Nel solco di tale tradizione si iscrivono, ad esempio, la Cena di Andrea del Castagno (1448), quella di Domenico Girlandaio (1480) o quella di Cosimo Rosselli (1481-1482).

 

PPP: Ad è proprio in seguito a questa personificazione ovvero una volta presa coscienza che giuda è uno di noi, o noi stessi - che arriviamo alla seconda sala della mostra, quella dedicata all’Incarnazione. Essa visualizza concettualmente i modi in cui nei secoli ci siamo sporcati le mani. Anche questa è una stanza senza tempo, come del resto l’intera a mostra. Si inizia con il video in cui una goccia di sangue cade dall’alto in maniera continua, a rappresentare un lento stillicidio, senza un tempo, senza un luogo…, senza che il liquido rosso in cui si riversa la goccia salga mai di livello, segnando così una linea d’orizzonte immobile nel tempo. È come un perseverare degli errori, delle sopraffazioni dell’uomo. Poi vi sono alcuni fotogrammi presi da un video in cui si ritrae una cellula tumorale che attacca una cellula sana ai quali,  non senza dare luogo ad uno stridente cortocircuito, ho associato un passo del Vangelo secondo Tommaso, quello del miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci, che invece ha a che fare con la vita, anche essendo essa non una moltiplicazione ma un’infinita divisione.

 

ST: E una condivisione!

 

PPP: Dividere tutto ciò che si ha e condividerlo, all’infinito. Dunque lo scarto è tra divisione-condivisione-moltiplicazione che genera vita e questa divisione-moltiplicazione che, vice versa, produce morte. Un riferimento è chiaramente anche alla condivisione della prassi alimentare contemporanea, al fatto che molti dei tumori di cui oggi ci ammaliamo sono dovuti proprio al cibo spazzatura, agli antibiotici usati per gli allevamenti etc., al legame tra ciò che ingeriamo e le malattie che ci procuriamo noi stessi. Un tempo il cibo era segno di condivisione, di procreazione e di vita, mentre oggi il capitalismo interpreta il cibo alla stregua di uno strumento per diffondere la morte.

 

ST: La pura quantità, il cibo come consumo…

 

PPP: Il ciclo del consumismo oggi si divide in cibo che si butta, quello che hai consumato senza ingerire, e cibo che ti fa male, quello che hai consumato ingerendo.

 

ST: E poi per il capitalismo se il cibo si butta è anche un bene. L’importante è che venga acquistato!

 

PPP: Sono le regole del gioco! Proseguendo - sempre nella seconda sala - troviamo il grande trittico fotografico ottenuto ricavando tre fotogrammi da un video preso dalla rete che illustrano scene del conflitto siriano. Avendoli tirati fuori, li ho ricomposti come fosse una sorta di natività rovesciata: la mamma ed il padre che piangono il figlio morto. C’è una deformazione dei volti aggiunta in fase di editing al video, come a voler far perdere anche le sembianze umane dei soggetti ripresi, come a descrivere un dolore extraumano. Anche questa è un’opera che non ha né storia, né geografia. Potrebbe essere persino una scena di 2000 anni fa, dei tempi di Cristo. Proprio per parlare dell’essere umano in quanto tale, astraendolo dagli episodi singoli. La sala è completata dalla pila di fogli neri che dice qualcosa sulla iperdiffusione delle immagini,  sulle strumentalizzazioni dei media, delle informazioni che ci arrivano dai paesi in conflitto direttamente sulle nostre tavole da pranzo. Anche perché – tornando al trittico – quelle sono le immagini che passano anche ai telegiornali, mentre noi siamo sul divano di casa, ed è proprio il loro carattere di “passaggio” ad entrare in consonanza con l’indifferenza verso i media, con il non voler guardare. Viceversa scelgo di congelare l’istante preciso affinché quel dolore diventi un qualcosa di eterno, un’icona di ciò da cui solitamente preferiamo tenerci lontani.

 

ST: Quindi il nero è anche metafora del non voler guardare…

 

PPP: E del non voler divulgare! Essendo i fogli di carta neri, sono privati della loro principale caratteristica, quella di essere bianchi affinché uno possa adoperarli per scriverci su, per lasciare memoria. È come se tu rimuovessi la possibilità di veicolare delle informazioni. Inoltre questa pila di fogli è messa in pressione da un elemento in cemento che non solo ridimensiona e manipola l’informazione ma addirittura la tiene ferma, sotto controllo. Una  sorta di monumento all’impossibilità di esprimersi. Di fianco un quaderno che - già realizzato ed esposto in altra occasione – rimanda alla questione dei migranti: una sequenza di fotogrammi, delle cartine, dei testi. Un lavoro organico e conclusivo sul tema. Infine l’ultima teca con tracce di pesci veri che chiudono la sala rimandando ad un’opera della stessa sala, quella della moltiplicazione dei pani e dei pesci… Questi tre frammenti singoli vanno così a completare quello che per me è la riflessione sull’Incarnazione.

 

ST: E così siamo giunti alla terza sala!

 

PPP: La Trascendenza! Qui il tavolo che regge un centinaio di quaderni fatti a mano funge da elemento centrale. Questa volta i quaderni sono bianchi, come segno di speranza nel poter scrivere una storia nuova, una storia diversa, benché siano sporchi di sangue, gli errori del passato, gli errori intrinsechi all’azione umana.

 

ST: Mi richiamano alla mente una canzone del primo Frankie Hi-Nrg :«Ogni giorno d'ogni mese d'ogni anno in tutto il mondo», , «la violenza comanda le azioni di uomini e nazioni: sesso, razza, religioni, non mancano occasioni per odiare, ma dobbiamo ricordare che siamo libri di sangue.. tutti libri di sangue...». Era il 1993, l’alba di un nuovo – od apparentemente tale – ordine mondiale. A distanza di un quarto di secolo non sembra possibile vederla e pensarla troppo diversamente.

 

PPP: Il materiale utilizzato per questi quaderni è materiale di risulta di una installazione precedente, Compianto, presentata al liceo artistico di Torre Annunziata, quando rivestii tutta la stanza di questi fogli di plastica dipinti. Pertanto in questa operazione vi è anche il desiderio di ridurre nuovamente in frammenti quell’opera che riportava alla luce l’icona della Pietà rappresentando il pianto di una mamma al cospetto di un figlio morto e quindi di distribuire questo dolore in quaderni che potessero scrivere qualcosa di rinnovato. Si tratta più o meno dello stesso lavoro che ho svolto per le teche sempre presenti nella stessa sala. Qui ricorre ancora il numero undici, sempre a causa della sottrazione dell’apostolo traditore. Inoltre anche qui compaiono frammenti derivanti da opere precedenti – foto, disegni assemblati come fossero delle reliquie, pur possedendo una natura assai effimera. I due vetri sono tenuti fermi da graffette e, nel momento in cui apri il vetro, questi frammenti si decompongono, questa icona diventa altro ed è di nuovo pronta a mettersi in discussione. Ci sono dei pezzi fermati momentaneamente, a voler costruire il tassello di una nuova storia, ma sono pezzi che potrebbero essere ricomposti attraverso altre sensibilità per mettere insieme altre storie ancora!

 

ST: E il pane?

 

PPP: L’ultima sala contiene una sequenza di fotogrammi, sempre di un rito, prese anch’esse dalla rete, di profughi siriani al confine con l’Ungheria che ricevono dei pacchi alimentari, dei “pasti umanitari”. Da un lato noi occidentali, con le politiche di espansione, andiamo a sottrarre risorse ai paesi arabi, ai paesi in via di sviluppo, ai paesi in conflitto; dall’altro restituiamo, lungo i nostri confini, delle briciole. Il cumulo di pane costituisce il completamento di tale discorso, rievocando ancora  la moltiplicazione dei pani e dei pesci. I pesci da un lato e il pane da un altro.

 

ST: Bene! Tentando, prima di chiudere, una sintesi di tutto questo percorso quali e quanti leitmotif potremmo individuare?

 

PPP: Non più di due. Innanzi tutto il tema dei media e della diffusione di informazioni e immagini: molto del materiale adoperato è preso deliberatamente dalla rete, materiale disponibile a tutti, come a voler sottolineare la volontà o meno di andare ad informarsi, non accontentandosi di quello che ci viene propinato dai media generalisti. Vi è poi la questione della risistemazione geopolitica del Medioriente, dai tempi di Cristo ad oggi, un’area geografica in continuo sviluppo - ovvero in costante conflitto, in perpetuo mutare di assi politici, sempre in base alle risorse, ai confini, alle religioni. Le questioni che affliggono quella zona del mondo sono le stesse da migliaia di anni! 

 

ST: È una zona che è stata continuamente martoriata da guerre, conflitti, dove la religione e l’economia si intrecciano in maniera inestricabile…

 

PPP: Nel Novecento tutta quell’area è divenuta un cuscinetto in seguito allo strutturarsi della guerra fredda. Ancora oggi gli Stati Uniti vogliono Gerusalemme capitale, Putin finanzia i siriani… C’è un interesse globale su quella scena, molte volte celato dietro il pretesto di guerra di religioni, quindi dalla jihād, dall’ebraismo, dal cattolicesimo… Infine non c’è altro che una continua spartizione di territori, di città, di ricchezze. Tutto questo ovviamente con la complicità e sotto gli occhi dell’umanità intera. Per questo il tema della goccia perpetua, della bambina sull’altalena… Sono delle immagini che poi afferiscono all’umanità intesa in un’accezione arcaica, degli errori che si ripetono periodicamente per i medesimi motivi. È ovvio che non è sufficiente l’esperienza accumulata, ma probabilmente bisognerebbe approcciare alla questione in maniera radicalmente differente…

 

ST: Non è che è un megatema; è un intreccio fitto di megatemi. Ci sarebbe da scrivere un libro su questa mostra. Una conversazione, come una recensione, finisce per apparire ben poco!

 

PPP: Se è per questo ci sarebbe da sviluppare una mostra su ognuna delle tematiche cui abbiamo accennato, poi magari ne trarremo anche un libro!

 

ST: Una mostra densissima comunque la tua, piena di significati, fitta sia sul piano del linguaggio, sia sul piano dei contenuti!