CONVERSAZIONI - 1

Chiara Pergola: Ciao Luciano, 

Luciano Maggiore: Ehy Chiara,

CP: Come sai, nel nostro tavolo del forum parleremo di "sopravvivenza". Prima di tutto ti chiedo, se tu a Londra hai un "money job" o se riesci a mantenerti con la tua ricerca.

LM: Lavoro full time.

CP: Come musicista?

LM: Pasticcere.

CP: Che bella cosa, forse adesso che ci penso, me lo avevi detto. Non c'entra niente questa domanda, ma ti hanno preso perché sei siciliano?

LM: :-))) No è una compagnia americana, non gliene frega niente dei cannoli.

CP: Che peccato! Comunque, per il discorso del forum, parto un po' per capire, da alcune mie curiosità: a Londra ci sei andato quindi non perché lì guadagni di più con l'arte. Ma...?

LM: Sono andato perché avevo voglia di cambiare aria e avevo voglia di vivere in una grande città, Londra è semplicemente la più vicina.

CP: Uno degli esempi che Stefano W. Pasquini vuole portare al tavolo, è quello degli Young British Artists negli anni '90. Mi diceva che ha abitato a Londra in quegli anni e che all'epoca praticamente tutti gli artisti inglesi grazie a questo boom lavoravano e vendavano. La scena artistica si era molto ampliata. Poi è tornato a Londra nel 2013 e anche se questo fenomeno è finito da tempo, comunque c'è un sacco di arte contemporanea ad ogni angolo di strada, si è sviluppata una sensibilità diffusa per l’arte. Per quello che vedi tu, puoi confermare una maggiore sensibilità, diffusione, anche a livello di non addetti ai lavori?

LM: Non ho idea di come sia la situazione per gli artisti qui in questo momento, vado alle mostre, ma non frequento molti artisti visivi; conosco registi, ma soprattutto musicisti, qualcuno che lavora nel campo della moda o design. Sicuramente ci sono un sacco di gallerie, ci sono continuamente un sacco di eventi e mostre, ma non ho idea del flusso di denaro che possano generare. Ma sugli addetti ai lavori e non, tu credi veramente che ci siano non addetti ai lavori? Mi sembra che dovunque si vada il pubblico sia sempre formato per una vastissima parte da "operatori del settore".

CP: Questo è un punto molto importante; ti dico cosa penso io, anzi di cosa sono del tutto convinta; penso che no, non c'è un pubblico; ma penso anche che questo sia il riflesso di un'altra cosa più importante, cioè che si può essere coinvolti in qualcosa solo sul piano del "fare". Parlando dell'arte (termine che andrebbe poi definito, ma diciamo che ci capiamo) io credo che l'arte interessi se la puoi fare e che tutte le forme di azione che conosciamo, compreso il collezionismo, siano altrettanti modi che le persone hanno trovato per "fare" arte. Idem per i galleristi, o i curatori. Questo anche con storture e ingiustizie, intendiamoci. L'arte non è una bella cosa! Non per forza, in questo mondo. Ma il punto è che io credo che chi compra arte (forse con l'unica eccezione della pura speculazione finanziaria, quando c'è), voglia in realtà fare l'artista, poi non può, non lo sa, si è ritrovato da un altra parte, e allora apre quella porta lì.

LM: Sono d'accordo con la prima cosa ma non con la seconda.

CP: Cioè non sei d'accordo che l'arte non è una bella cosa?

LM: Esatto. Forse non è proprio necessaria, ma è decisamente neutra, chi la fa può essere buono (bello) o cattivo.

CP: Diciamo che se sei d'accordo con la prima cosa (cioè che l’arte interessa se la puoi fare) allora dobbiamo estendere il concetto di arte anche al collezionismo (per esempio) o al commercio e lì io trovo che - spesso anche se non sempre - il collezionista o il gallerista, non siano bravi artisti.

LM: Anche in questo caso credo sia solo un modo di operare all'interno dell'arte, non per forza buono o cattivo.

CP: Sì, forse hai ragione che la cosa va vista sospendendo il giudizio…

LM: Non conosco molti collezionisti ma sono sicuro che in mezzo a questi ci siano delle persone valide.

CP: Sì, certo ci sono, insomma, sono persone: non è che le persone siano tutte bianco o nero; è un mix…

LM: Esatto

CP: Però - volendo precisare meglio il mio punto di vista, sulla questione buono cattivo, intendo che la loro arte forse potrebbe essere "cattiva" (nel senso di “captiva”, cioè prigioniera) nel momento in cui non assumono il fatto che il loro agire è in fondo lo stesso degli artisti; cioè siamo attorno alla stessa cosa, allo stesso desiderio in fondo. Ma volevo chiederti un’altra cosa, su questa storia del pubblico (che non c'è). In altri ambiti secondo te è diverso? Nella musica il pubblico c'è?

LM: Ne parlavo proprio l'altro giorno con Takamitsu Ohta che viene a suonare a Bologna tra qualche giorno. Diciamo che il pubblico c'è quando raggiungi un certo livello di notorietà forse; di base in un contesto cittadino come potrebbe essere Bologna o Londra per le micro comunità/scene che ci sono il pubblico è sempre fatto per la maggior parte di amici, familiari e addetti ai lavori. Viaggiando questa cosa si nota meno ma forse semplicemente perchè i primi due gruppi di persone non appartengono alla tua cerchia ma alla cerchia del promoter/curatore/organizzatore. Ma credo che la stessa cosa valga per lo sport come per moltissimi altri campi.

CP: Questo in parte conferma la mia idea, sul discorso del coinvolgimento. Cioè che l’attenzione si struttura sul piano del “fare”. Però devo dire anche che se penso a me per esempio, io rispetto alla musica credo di essere "pubblico"; nel senso che non ho mai pensato di suonare, però mi interessa l'espressione musicale. Non vado solo a vedere o sentire le cose del "giro" di amici. Anzi, proprio qui a Bologna vado spesso a sentire le cose di Angelica. Ora non è che io debba diventare la cartina di tornasole di alcunché, anzi…

LM: Credo che, sia il tuo che il mio rapporto con altri campi diversi da quello in cui operiamo, non si collochi sul piano dell'intrattenimento ma piuttosto su quello del nutrirsi, fagocitare mondi per portarli nel proprio, ma questo è quello che probabilmente fanno tutti.

CP: Però mi domando se attorno all'arte i rapporti si sono strutturati - soprattutto per come si sono strutturati i rapporti economici, in modo tale da creare una certa polarizzazione per cui il rapporto con le forme di espressione visiva contemporanea, fa sentire maggiormente i vincoli economici che lo reggono con il portato di esclusione e privilegio che si portano dietro. o se invece nel momento in cui io decidessi di esprimermi (per dire) con la musica, troverei poi lo stesso tipo di problemi. E quindi mi interessa capire se tu - che comunque hai frequentato anche il visivo - vedi delle differenze nel modo in cui si strutturano i rapporti economici in un ambito e nell'altro.

LM: Il mondo della musica o meglio della nicchia di cui faccio parte sembra meno ostile, si percepisce più un'aria di comunità.

CP: Secondo te perché, di fondo?

LM: Probabilmente perché in musica non si vendono oggetti per migliaia o milioni di euro, il collezionismo esiste ma gli oggetti (cd, dischi, cassette, magliette, ecc...) hanno sempre dei prezzi accessibili e se il prezzo cresce è solo perché la manifattura è più costosa e non perché l'oggetto è reso più desiderabile da un nome, o da un contesto. Anche un'altra differenza è l'immediatezza con cui le cose avvengono e vengono supportate dal basso.

CP: Cosa intendi con immediatezza?

LM: La mancanza di tutta quella "burocrazia" che invece ha l'arte contemporanea anche quando si parla di realtà molto piccole. Si parla con persone e non con uffici; (non è una regola ma spesso è la norma).

CP: Ne parlavo anche con Isabella Bordoni, Emanuela Ascari e Cosimo Terlizzi, perché è proprio su questo che secondo me c'è un aspetto che permette di chiarire perché per molti artisti la galleria rappresenta ancora una meta "ideale". Perché immagino tu mi parli di burocrazia pensando alle difficoltà di operare in ambito "pubblico" diciamo di "arte pubblica" anche se non mi piace il termine, o anche istituzionale, per accedere a residenze e simili. C'è un sacco di burocrazia che toglie spazio poetico.

LM: Parlo anche di comunicati, inviti cartacei a casa, ecc ecc… Probabilmente c’è stato un momento nella storia in cui queste cose erano necessarie ma non credo che sia il caso degli ultimi 20 anni.

CP: Sì. Io per esempio, che lavoro soprattutto in ambito pubblico/istituzionale trovo che spesso ho molto più spazio poetico quando insegno matematica a scuola (insegno in una scuola media, e con gli studenti c'è veramente molta poesia - non altrettanto fuori dalla classe). E credo che in questa situazione molti artisti pensino che se avessero una galleria avrebbero più spazio poetico…

LM: Probabilmente lo avrebbero, dipende dal loro modo di operare. C'è gente ad esempio che pensa che sia meglio ritoccare musiche per videogiochi piuttosto che fare il fruttivendolo per mantenersi e fare arte con il tempo rimanente, io non sono d'accordo ma sono sicuro che per alcuni sia vero.

CP: Non lo so, sì, forse; ma c’è il rischio di uno spazio poetico creato artificialmente, attorno alla galleria che si alimenta in fondo di questo rapporto negato con l'arte, perché come dicevo all'inizio, non assumono il proprio agire come arte. Quando assumono il proprio agire come arte, allora secondo me sono anche i galleristi o i collezionisti, degli ottimi artisti.

LM: Hai tante opere in casa di collezionisti?

CP: Sì, infatti ho le pareti completamente vuote. Ora mi si manifesta il vuoto delle pareti di casa mia - grazie alla tua domanda - come l'opera dei collezionisti! Un'epifania. Grazie! Non ci sarei mai arrivata da sola.

LM: E loro le tengono in casa o nei fantomatici magazzini dell'arte?

CP: Secondo me le tengono sepolte nel più profondo del cuore… che gronda tristezza per non poter dire al mondo tutta l'arte che ha dentro.

LM: Ecco un'altra questione… capisco l'economia della cosa ovviamente, ma non capisco come qualcuno possa spendere un sacco di soldi per qualcosa e poi non goderla. Io se avessi un Monet in casa non credo che uscirei più, gli piazzerei un divano davanti ed ecco la fine dei miei giorni.

CP: L'assistente di una galleria di Milano, mi diceva che alcuni collezionisti fanno così.

LM: Loro sono veramente brave persone!

CP: Vanno in galleria e si siedono davanti all'opera, anche per tutto il giorno. Poi appunto, alcuni di loro la comprano, spendendo un sacco di soldi.

LM: E vedi questa cosa come una cosa "sana" o ti da fastidio?

CP: Non mi da fastidio, però mi rattrista; la trovo una cosa triste, come un amore non corrisposto.

LM: Non sai cosa fanno una volta comprata e portata a casa però.

CP: Questo infatti è molto importante; bisogna vedere… non è facile capire. Credo che quello che mi rattrista sia l'idea di solitudine che c'è dietro a tutto questo, ma nemmeno questo è sempre vero. Comunque anche i collezionisti, o la maggior parte di loro, ha poi a un certo punto bisogno di creare un contesto di condivisione delle opere; nei casi peggiori può essere nella forma del prestigio sociale, ma è sempre un bisogno di condivisione.


(*) Il 10 novembre 2018, al MAMbo - Museo d'Arte Moderna di Bologna, si è svolto il V Forum dell'Arte Contemporanea Italiana. L'edizione di quest'anno, coordinata da artisti, ha aperto molti fronti di discussione. In particolare, nel tavolo coordinato da Stefano W. Pasquini e Chiara Pergola, la domanda riguardava la sopravvivenza dell'artista [1], in più di un senso a dispetto dalle circostanze:

"Partendo dal presupposto che non può esserci arte senza artisti e che la spinta espressiva è fondante della nostra umanità, domandiamo quali siano le loro reali condizioni di vita nel sistema corrente. A fronte della sproporzione tra offerta e domanda è possibile trasformare il mercato in modo da ampliarne la base? Quali problemi pone un cambiamento di prospettiva per gli interlocutori presenti nel sistema? Siamo in grado di immaginarci assieme in modo nuovo? A partire da queste domande sulle “condizioni di produzione dell’arte”, cercheremo di capire come è possibile sostenere, dare circolazione e rendere significative oggi le pratiche espressive…"

Molte sono state le riflessioni che il tempo compresso del forum ha permesso di dispiegare solo in parte. Ne proponiamo alcune che intrecciano i percorsi di Walktable.

 

Hanno partecipato alla discussione: Emanuela Ascari, Isabella Bordoni, Flavio Favelli, Anna Ferraro, Luciano Maggiore, Elena Nemkova, Giancarlo Norese, Fabrizio Padovani, Alessandro Pasotti, Marco Panizza, Roberto Ratti, Francesco Ribuffo, Chiara Ronchini, Luca Rossi, Cosimo Terlizzi.

 

[1] http://www.treccani.it/vocabolario/sopravvivenza/ Per calco dell’inglese survival, pratica militare di addestramento, in cui si impara e ci si allena a sopravvivere in condizioni ambientali difficili, usando essenzialmente le proprie abilità nel procurarsi il cibo, costruire un riparo, fabbricare utensili, ecc., con i materiali a disposizione. Aggiungiamo a questa definizione: lasciare tracce (NdR).