Anaglifi

Aurelio Andrighetto: Cara Chiara, due o tre giorni fa mi trovavo con un amico teologo. Nel corso della discussione ha richiamato gli studi di Régis Debray. Il suo saggio Vita e morte dell'immagine l'avevo letto tempo fa. Debray scrive che "aspettando la nozione di proprietà, quella di personalità intellettuale e artistica deriva dalle nuove pratiche di appropriazione dei prodotti dello spirito". Per l'autore ciò avviene attraverso l'invenzione della prospettiva geometrica che, nelle opere da lui esaminate, rovescia la direzione dello sguardo spostandolo dalla parte del soggetto. Mi spiego: quando il committente non desidera più una Natività ma un Raffaello perché non è più il messaggio informativo e trasfigurativo a interessarlo ma la qualità formale dell'immagine, il modo in cui Raffaello vede e dipinge, la nozione di personalità artistica sta preparando quella di proprietà, inaugurando il meccanismo di appropriazione del lavoro artistico e intellettuale. Potremmo benissimo rileggere attraverso Debray la figura eroica dell'artista promossa dalla Transavanguardia in chiave di appropriazione. Tuttavia il congiungersi dello sguardo con la logica matematica, nel caso della prospettiva geometrica, ha potuto anche farci vedere la natura fisica, non più metafisica e psicologica, del mondo che ci circonda. Il punto è questo: ci troviamo sempre di fronte a delle complessità e spesso il modo in cui vediamo modifica la realtà o, meglio dire, la visione che ne abbiamo s'innerva in essa modificandola. Usando le parole di Debray: "la rivoluzione dello sguardo, come sempre, ha preceduto le rivoluzioni scientifiche e politiche d'Occidente". Non solo. Secondo Debray questa concezione autoriale dell'opera d'arte nasce insieme alla creazione tipografica del risguardo del libro stampato e questo elemento, che porta nella direzione della scrittura e della lettura, è un'altra prospettiva che si apre in un sistema che definirei "ellenistico" nel senso del Simposio:  sono convinto che il moltiplicare i punti di vista, connettendoli in un sistema, sia la cosa sulla quale scommettere.

chiara pergola - anaglifi

Chiara Pergola: Caro Aurelio, a questo proposito mi viene in mente un mio scritto di anni fa che penso abbia a che vedere con il discorso che poni; credo anche che possa avere molto senso richiamare l'attenzione sulle origini lontane di questa situazione in cui il "discorso" pare essersi dissolto in una molteplicità di voci. Perciò vorrei riproporlo qui, con un intervento che mi è stato suggerito dall’assunzione di uno sguardo atipico sulla Madonna del parto di Piero della Francesca, la cui ieraticità è giocata sulla simmetria (assoluta nel volto) e sulla complementarietà dei colori. Nel corso di una visita a Monterchi, di fronte all'originale mi sono accorta che guardando l'affresco in una prospettiva rovesciata, cioè "con gli occhi storti" e cercando di sovrapporre i due angeli a lato, per via dei colori complementari si ottiene al centro una specie di figura tridimensionale, più o meno come se si guardasse con gli occhiali 3D. In questo senso La Madonna del parto funziona un po’ come un’anaglifo ante litteram. Trovo significativo il fatto che proprio gli elementi costitutivi alla base della staticità caratteristica dell'opera, siano quelli che ne determinano la dinamizzazione se ribaltiamo il punto di vista.  E’ impossibile dire se questo fosse o meno nelle intenzioni di Piero; certo è che in quest’opera le preoccupazioni sia fisiche che simboliche legate alla ricerca di un’altra “dimensione” sono particolarmente tangibili. Una ricerca che oggi si traduce nella necessità di cogliere nel molteplice la nuova dimensione in cui siamo immersi.



chiara pergola - anaglifi: conversazione

SOGGETTI VOLANTI*

 

La famosa lotta con l’angelo deve essere ancora molto di moda nelle arti visive, se Hal Foster non più di dieci anni fa dichiarava, in un noto scritto di arte contemporanea(1):


“L’angelo con cui abbiamo lottato è stato Marcel Duchamp tramite Andy Warhol, e non Picasso tramite Pollock”


E’ significativo che un libro impegnato a tracciare un radicamento nel concreto delle più recenti tendenze artistiche, non rinunci all’originaria implicazione metafisica; non credo sia la ricerca di un espediente letterario che porta Hal Foster ad utilizzare questa frase: la nostra storia è piena di soggetti volanti, e non fanno che precipitare. Mi sono domandata cosa con loro precipiti e perché. Circoscrivendo il discorso ai sistemi di rappresentazione una risposta si può trovare nel passaggio da un pensiero legato alla filosofia scolastica medievale a quello che fiorisce in Italia nel Rinascimento, all’interno delle scuole d’abaco e che in definitiva fonda il pensiero moderno. Le scuole d’abaco erano frequentate da artigiani, da tecnici, dall’emergente borghesia mercantile, e vi si impartiva un insegnamento basato sulla matematica, applicata ai problemi del mestiere che si stava imparando. Qui compaiono i primi strumenti per misurare le distanze e si introduce un sistema di rappresentazione, la prospettiva, che cambia la concezione e, presumo, anche la percezione dello spazio.

 

Fino a quel momento, seppure con notevolissime differenze negli intricati percorsi del pensiero occidentale dall’antica Grecia in poi, l’assoluta alterità di mondo sublunare e sidereo rimane una costante. Quello della tarda scolastica medievale, in particolare, è un universo gerarchico, il cui “sopra”, il cielo empireo, ha natura quintessenziale. La quinta essenza (2) dopo le quattro di derivazione empedoclea che regolano le dinamiche del mondo sublunare, è nella filosofia cristiana della luce la sostanza dell’illuminazione divina, a cui ogni individuo deve tendere per la salvezza della propria anima in vista di una vita oltermondana. Ma anche se si trattava di una sostanza altra, inattingibile nel presente, manteneva nella sua identificazione con l’etere, la “prima sostanza corporea” del cielo aristotelico, un carattere tutto sommato materiale.

 

Quando Piero della Francesca introduce il quinto elemento della rappresentazione prospettica, il luogo arbitrario che consente di dare all’immagine statuto di linguaggio, e lo descrive come il piano che “taglia i raggi luminosi che collegano l’occhio alla cosa veduta”, si può supporre che immaginasse di tagliare qualcosa di invisibile, ma concreto. Le sue opere pittoriche sono in un certo senso le sezioni istologiche di questo tessuto imponderabile, e non c’è da meravigliarsi se le figure che sopra vi si dispongono risultano così esangui. L’operazione acquista un sapore chirurgico, ma evidentemente non è indolore e anche il suo cristo risorto, ha l’aria dell’alieno che viene a cercar vendetta.

 

Ma questa è una lettura differita, all’epoca c’era ben altro a cui pensare. Le scuole d’abaco erano luoghi pienamente sensati, operativi, dove si imparava ciò che era utile a far procedere gli affari, la cui importanza non era affatto messa in discussione dalla classe sociale emergente. Piero, che scrive i suoi trattati per queste scuole in cui probabilmente insegna e gli artisti, che imparano ad utilizzare i nuovi strumenti di rappresentazione passano dal rango di artigiani a quello di borghesi, affermano la propria importanza sociale; lo spazio nuovo, omogeneo, quantitativo, che così si introduce, è uno spazio vuoto: ma in cui si possono costruire oggetti reali di cui godere nella vita terrena. E’ solo molti secoli dopo, quando si renderà tangibile nella vita di un enorme numero di persone, che il problema della qualità di queste costruzioni diventa, almeno in teoria, ineludibile.

 

Quando si è impegnati a fare, avvinti dalla propria pratica, se ne possono anche perdere di vista le conseguenze. Tanto più se gli individui che ne risentono gli effetti negativi, non sono in condizioni di farsi sentire, se non possiedono un linguaggio (3). Ma il processo che si avvia al tempo di Piero, va proprio nella direzione di un’estensione del linguaggio; e quattro secoli dopo l’evoluzione del metodo da lui messo a punto per sezionare il mondo delle idee, la fotografia (4), ci mostra qualcosa di concreto. Tecnicamente quello che precipita sono i sali d’argento e, ironia della sorte, l’impronta dei corpi a contatto con la luce; e non poteva non precipitare, è una questione di concentrazione; per millenni il pensiero occidentale ha teso in questa direzione, e alla fine si è per così dire materializzato: nel lavoro di fabbrica, di miniera, nelle grandi città industriali, negli edifici in
cemento, nei mezzi di trasporto, nelle strutture sempre più complesse in cui si svolge l’attività umana e nelle immagini che ce le mostrano. Le parole non capitano mai a caso: massificazione. La massa è l’unità di misura della materia e nelle trame lungamente preparate dal pensiero occidentale,
è caduta, nientemeno, la realtà.

 

(*) Chiara Pergola, aDieu - proposta per un addio al celibato, pagg. 38-43. Edizioni X/? Bologna, 2009.

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NOTE:
(1) H. Foster, Il ritorno del reale, Postmedia books, Milano, 2006, pag. 11.
(2) Quinta essenza è il modo in cui l’etere veniva chiamato nella filosofia scolastica medievale. Aristotele nel De caelo parla dell’etere come sostanza prima”, cioè esistente e reale, primaria e incorruttibile rispetto ai quattro elementi già individuati da Empedocle (aria, acqua, terra e fuoco) che costituiscono nella loro mescolanza gli enti del mondo sublunare. Nel passaggio dal pensiero aristotelico al medioevo cristiano c’è questo spostamento terminologico. Cfr. C. Sini, I filosofi e le opere, Principato, 1979; Aristotele, De Caelo, trad. di O. Longo, in Opere, vol. III, pp. 245-247

(3) Voglio estendere il più possibile il discorso, per rendere chiaro come il problema del linguaggio sia cruciale ed embricato a tutti i processi vitali e non solo a quelli dell’uomo. Noi possiamo ignorare le eventuali sofferenze inflitte ad un grandissimo numero di organismi (e chi lo sa se non si debba includere qui anche l’inorganico), per il semplice fatto che non udiamo alcuna protesta, per lo meno non in forme che possiamo riconoscere come tali. Questo è anche un bene, perché può darsi che se tutte le proteste del mondo ci arrivassero in modo chiaro ed inequivocabile, dovremmo in

coscienza rinunciare ad un sempre maggior numero di attività, fino alla paralisi totale. Sigmund Freud ha intravisto l’esito estremo di questa ipotetica “pressione ambientale” quando parla del cedimento all’inorganico nella pulsione di morte. S. Freud, Al di là del principio di piacere.
(4) Il principio alla base della fotografia, la camera obscura nota fin da tempi antichissimi, viene utilizzato nel Rinascimento per disegnare secondo la visione prospettica. La vera e propria fotografia nascerà con la coniugazione di queste “macchine per disegnare” ad un altro principio, noto agli alchimisti del medioevo: l’azione dei raggi luminosi su una superficie sensibile; il primo a “catturare” così l’immagine su una lastra attraverso la precipitazione dei sali d’argento è J. N. Niepce, nel 1826. Il procedimento che dà all’immagine valore di linguaggio formalizzato unito alle proprietà chimico-fisiche di alcune sostanze, consente da allora di realizzare una sorta di scrittura ampiamente accessibile.